La parola autobiografia deriva del greco authòs bìos graphein, cioè scrivere della propria vita. E’ un gesto che si compie tutte le volte che mettiamo al centro dell’attenzione non solo gli avvenimenti che abbiamo vissuto, ma la storia della nostra personalità, l’evoluzione dei nostri pensieri e come abbiamo reagito alla nostra avventura esistenziale. E’ un viaggio attraverso le infinite stanze della nostra memoria, luogo d’incontro con se stessi e con tutte quelle manifestazioni dell’essere umano, piacevoli o meno, che abbiamo vissuto.
L’autobiografia è ormai divenuta uno dei grandi temi della ricerca contemporanea. In letteratura, in sociologia, nella psicologia, ma anche nella storia e soprattutto nella pedagogia. Le ragioni di questo interessamento sono molteplici, ma una prevale su tutte: il ritorno al centro del soggetto nella cultura contemporanea. L’epoca del dopo-le-ideologie mostra in modo evidente la crisi del soggetto, con la necessità ormai non più rinviabile di trovare nuovi percorsi esistenziali, di porsi domande mai fatte sulla propria identità per assumersi in prima persona la cura di sé come rielaborazione di una più personale traiettoria di senso. Scrivere di se stessi permette, quindi, alla nostra interiorità di materializzarsi sul foglio, con l’aiuto delle parole e dona forma e sostanza ai ricordi e ai pensieri intrisi di vissuti ed emozioni. Ed è proprio grazie alla scrittura che i nostri ricordi più intimi si liberano, a volte si scoprono dimensioni differenti, ci si può addirittura meravigliare, perché la penna ti porta in luoghi della tua anima che non potresti visitare se non attraverso la pratica silenziosa e solitaria della scrittura autobiografica.
Narrare se stessi, attraverso la scrittura, vuol dire anche assistere allo spettacolo della nostra vita, ci si “vede” come in un film il cui montaggio e la cui sceneggiatura non sono dati, con i fotogrammi in bianco e nero o a colori, sbiaditi o accesi, a seconda che i nostri ricordi siano subito rintracciabili o abbiano bisogno di tempo e di silenzio per emergere. Il bisogno di scrivere è anche un tentativo di padroneggiare meglio la situazione: perché non solo ci aiuta a capirla meglio ma perché ha una funzione catartica, liberatoria, perché scrivendo ci distanziamo dai problemi e li possiamo padroneggiare.
Quando partecipiamo ad un laboratorio o dischiudiamo le porte della nostra vita alla scrittura autobiografica abbiamo la netta sensazione di fare qualcosa di bello per noi, di fermarci per un attimo pensando solo a noi stessi, fuori dai rumori, a volta fastidiosi, che tutti i giorni ci fanno compagnia. Il silenzio della scrittura diventa quindi una forma di ascesi, una condizione essenziale di lotta contro l’oblio. I ricordi che ne scaturiscono danno luogo a significati, che forse non conoscevamo, e che a loro volta si trasformano in storie. Questo processo riconcilia con quanto si è stati e procura all’autore emozioni di quiete, e quindi in un certo modo lo cura: lo fa sentire meglio attraverso il raccontarsi e il raccontare che diventano quasi forme di liberazione e di ricongiungimento. Perché l’azione del ripensare a ciò che abbiamo vissuto, crea un altro da noi. Lo vediamo agire, sbagliare, amare, soffrire, godere, mentire, ammalarsi e gioire: quindi ci sdoppiamo, ci moltiplichiamo e ogni autobiografia è stata scritta perché l’autore aveva bisogno di attribuirsi un significato, anzi più di uno, e presentarsi al mondo.
Un aspetto importante che avviene è quello dell’autoformazione, perché le parole della nostra vita ci aiutano a scavare dentro di noi e ai nostri saperi nascosti e a tirarli fuori mettendo in atto una rielaborazione, ri-significazione, risistemazione delle esperienze. È attraverso la narrazione di sé e dei propri sentimenti che possiamo cercare di metterci davvero in relazione con gli altri. La scrittura e la narrazione autobiografica fanno sì che i ricordi vengano isolati, quasi illuminati, poi che vengano messi in ordine, in sequenza e infine collocati in qualche luogo (contestualizzazione). La mente opera ancora una concatenazione dei ricordi e una loro ri-significazione. Infatti, una volta scritto un frammento, o una parte della mia storia, lo inserirò diversamente da prima nel mio vissuto agendo un cambiamento.
L’altro aspetto importante che bisogna tener presente è quello della cura, che si manifesta nel fatto che la scrittura permette di far decantare sulla pagina, di far uscire fuori di sé quello che dentro è in tumulto. Una volta che abbiamo reso oggettivo quel frammento, lo possiamo guardare con un po’ più di distacco e distanza e ci farà meno paura. La scrittura insomma ci permette di “fare i conti” o di aprirli, anche con le esperienze e i ricordi più dolorosi, di dargli un significato in un contesto, di accettarli finalmente.
Importanti in un laboratorio sono la sospensione del giudizio e la condivisione facoltativa delle scritture. Il principio fondante è che si scrive individualmente ma insieme e la scrittura è il medium d’elezione. Ci saranno dei momenti di condivisione orale ma per lo più ci si dedicherà alla parola scritta. Ognuno scriverà di sé sulla base delle sollecitazioni proposte; questo viene però sempre fatto all’interno della coralità del gruppo, per questo verranno sollecitati anche momenti di condivisione. La condivisione non è obbligatoria ma auspicabile poiché presumibilmente ognuno è mosso da un’intenzione simile nell’approcciare la scrittura autobiografica. E’, dunque, un’opportunità quella di poter offrire oralmente anche agli altri l’esperienza individuale che si è fatta. L’ascolto da parte degli altri è un ascolto attivo nel quale ci si lascia penetrare dalle parole, a mente sgombra da ogni forma di giudizio o pregiudizio, coltivando l’epoché cara ai greci. Si resta semplicemente in osservazione delle risonanze e/o dissonanze, senza echi, interpretazioni o psicologismi.
La scrittura autobiografica è quindi una pratica formativa per tutti e tutte e per ciascuno, nessuno escluso.